Il Covid non è democratico

La Sars-Cov-2 è tornata! La prevista seconda ondata è arrivata come uno tsunami a colpire l’Europa, gli Usa e tutti gli stati occidentali. Specifico gli stati occidentali, perché l’Oriente sembra non aver subito il colpo del ritorno del virus: la Cina dichiara numeri contenuti nella decina di unità di contagi giornalieri e il resto dei paesi orientali, seppur continuando a combattere il virus, rimangono in una situazione di controllo.

In questo contesto il regime dittatoriale cinese di Xi Jinping gongola per il risultato ottenuto nel contenimento del virus generatosi proprio nel “Regno di mezzo” che si pone così agli occhi del mondo come modello di efficienza. Da questa esperienza la Cina ne uscirà vincente rispetto ai paesi liberalisti che stanno subendo fortemente il rialzo numerico dei contagiati.

Le motivazioni possono risiedere nel controllo oltremodo invasivo della polizia cinese, ma non nascondiamoci dietro questo, in quanto anche nel Belpaese le limitazioni personali e le invasioni ai limiti della Costituzione delle nostre forze dell’ordine non sono state proprio una dimostrazione di stato liberale. Per il filosofo sudcoreano Byung-Chul Han sono da individuare piuttosto in un atteggiamento culturale di collettivismo rispetto all’individualismo dei paesi occidentali, come spiega dalle pagine de “La Repubblica”, in tempi di crisi una società deve sopravvivere come collettivo, rinunciando alle libertà individuali. Più lo stato è liberale più sarà necessaria coesione di popolo. In paesi come la Nuova Zelanda, la leader ha fatto appello alla “squadra dei cinque milioni” di cittadini e il buon senso ha prevalso.

Le parole condivisibili del filosofo non riesco a farle collimare, però, con il contesto italiano. Abbiamo subito, come detto, limitazioni quasi cinesi e nel complesso il paese ha risposto in maniera obiettivamente corretta, rispettando le indicazioni fornite dal Governo. Credo anche che la comunità italiana sia stata anche ben coesa nel combattere insieme questo virus, che portava via ogni giorno centinaia di nostri connazionali. Allora cosa è successo da giugno ad oggi? La riapertura e il ritorno alla vita normale, se così si può definire vivere senza espressioni sul viso, senza una stretta di mano cordiale e in assenza di contatto umano, ha fatto, se vogliamo, sbracare un po’ l’attenzione sul problema, forse soprattutto da parte delle generazioni più giovani, meno curanti delle misure di distanziamento. Una responsabilità concorrente, però, la trovo nello scontro politico che si è avuto in questo periodo di calma apparente, basato più su annunci fatti per ricercare il consenso degli scontenti che sulla necessità di fornire informazioni certe o di trovare una strategia comune per il bene del paese finalizzata all’attivazione delle misure per evitare un nuovo lockdown. Ancor di più una correità la ravviso da parte degli “esperti” che hanno battuto a tappeto televisioni, radio, giornali, talk show e altro forse solo per raggiungere elevati livelli di visibilità. Così se la prima fase epidemiologica è stata caratterizzata da confusione comunicativa, la fase estiva e attuale è diventata caos allo stato puro. Un giorno il virus è morto, il giorno dopo è mutato ed è più pericoloso. Un giorno le mascherine fanno male, il giorno dopo sono fondamentali. Un giorno c’è emergenza sanitaria, il giorno dopo abbiamo gli stessi morti per influenza che si verificano tutti gli anni. Questo crea una mancanza di credibilità nelle istituzioni che facilita i comportamenti sbagliati.

Ora siamo di nuovo nella condizione di un imminente lockdown economico e sociale, che forse per farci sopravvivere al virus, provocherà la morte definitiva della comunità. La paura di morire, la tanatofobia, che ci attanaglia in questo periodo, paradossalmente ci fa morire lentamente attraverso l’allontanamento dagli affetti, dalla socialità, dal lavoro, dall’attività economica di sostentamento.  “La morte non è democratica” dice ancora Byung-Chul Han, “in questa società della sopravvivenza chi non può permettersi di isolarsi corre maggiori rischi di contagio”, mi chiedo però se la paura di morire non stia diventando paura di vivere e, seppur convinto della necessità di adottare misure per la prevenzione del contagio, mi domando che vita stiamo ormai vivendo e per quanto tempo possiamo ancora viverla così. Le manifestazioni e le proteste che si stanno verificando in tutte le piazze italiane sono la dimostrazione di un’intolleranza oramai non più latente, per la mancanza di certezze su cosa sta succedendo, ma anche perché si sperava che le misure adottate in attesa della seconda ondata fossero sufficienti ad evitare ulteriori riduzioni dello spazio vitale e che il sistema si fosse adattato alla nuova condizione per uscire dall’emergenza e permetterci di tornare a vivere.

Così non è stato e ci troviamo ad affrontare la seconda ondata nella speranza che ulteriori restrizioni (in zona gialla, rossa o arancione che sia) portino alla deflessione della curva dei contagi. Quando i numeri torneranno gestibili, potremo dire di aver imparato dai nostri errori e prepararci ad affrontare la terza ondata in maniera meno approssimativa? Vista l’esperienza nella gestione delle catastrofi in Italia credo di no. Ci adopereremo solo per mettere una pezza alla mancata prevenzione, magari colpevolizzando questa o quell’altra categoria e sperando di superare ancora una volta l’emergenza. Io speriamo che me la cavo, titolava un libro di Marcello D’Orta citando una frase di un bimbo napoletano scritta su di un tema proprio sulla fine del mondo quanto mai centrato in questo momento storico. E allora speriamo di cavarcela, perché se qualcosa nella mentalità politica di questo paese può cambiare forse non avremo il tempo di vederlo.

 

Pubblicato su "Voci di Dentro - Numero 34 - Dicembre 2020"

 

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