La puntata di Report sulle violenze nelle carceri

«Ci hanno spogliato, sì, spogliato a nudo, così come animali in una stanza. E pum, coi manganelli sulle cosce, sui reni. Trattato che neanche un cane così». Questa, come tante altre di reclusi e di familiari, è una testimonianza di un detenuto di Santa Maria Capua Venere trasmessa dalla trasmissione Report del 18 gennaio. Si fa riferimento alla cosiddetta perquisizione effettuata dagli agenti della Polizia Penitenziaria dell’Istituto di pena campano il 6 aprile 2020, il giorno dopo le proteste esplose nel carcere per la mancata attivazione di qualsivoglia precauzione anti Covid, se non l’annullamento dei colloqui. “Cosiddetta perquisizione”, perché l’attività dei 300 agenti in tenuta antisommossa è, giustamente, oggetto di indagine da parte della locale Procura che ha iscritto sul registro degli indagati 44 agenti della polizia penitenziaria, che avrebbero effettuato una vera e propria spedizione punitiva ai danni dei rivoltosi e non solo. Vittime della punizione sono stati anche quei detenuti che alla rivolta non avevano partecipato, ma che erano rimasti nelle sezioni ed erano usciti nel campetto solo seguendo le indicazioni degli agenti per non morire asfissiati dal fumo degli incendi appiccati. Un intervento a freddo, considerato che la rivolta era stata sedata. Un’operazione organizzata, non frutto di reazione per il ripristino dell’ordine, ma agenti incappucciati, con caschi e manganelli, disposta «sicuramente dall’autorità penitenziaria, dal Provveditore o dal Direttore» spiega il sindacalista della Polizia Penitenziaria che aggiunge «noi non stiamo li a fare i cappellani, non porgiamo l’altra guancia se colpiti».

Certo, signor sindacalista, ci sta, ma la rivolta era già finita, come giustamente sottolinea il giornalista di Rai Tre, anche al Provveditore DAP campano. Così come non c’erano situazioni di sommossa, quando i detenuti, trasferiti in altre carceri, sono stati picchiati nell’Istituto di partenza, durante il trasferimento e all’arrivo nella destinazione, lasciati scalzi e senza possibilità di lavarsi e di cambiarsi di abito per venti giorni.

Non nego che mi ha coinvolto emotivamente la commozione della mamma di un detenuto di Poggioreale quando al videogiornalista di Report confessa: «non hanno acqua calda. Veramente che hanno sbagliato i ragazzi, però essere trattati proprio da animali, no. Mio figlio è risultato positivo al Covid ed è un mese che non lo vedo. Almeno fateceli portare a casa in questo periodo che è così pericoloso e delicato. È un ragazzo di 22 anni.» A nulla sono serviti gli appelli dei familiari, le denunce, le richieste del Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma, lo sciopero della fame di Rita Bernardini, le disposizioni normative. Le misure alternative previste nei decreti Covid per alleggerire il carico carcerario, anche in previsione della necessità di avere spazi dedicati all’isolamento dei positivi, sono state applicate in percentuale minima per i paletti imposti, ma anche per la cronica difficoltà del sistema giudiziario di assolvere all’alto numero di richieste. Anche la possibilità dei domiciliari con l’uso dei braccialetti elettronici ha trovato scarsa applicazione, questa volta per la mancanza dei dispositivi, che non sono arrivati in numero sufficiente per disporne l’uso per tutti gli aventi i requisiti.

Il conduttore, Sigfrido Ranucci, ritorna sulla sentenza della CEDU e su altre condanne e indagini della giustizia italiana per violenze e torture perpetrate in diverse carceri, sottolineando che i segnali ci sono già da cinque anni e che non si è stati capaci di coglierli. Non sono solo cinque anni, ma decenni che esiste una situazione di criticità di un sistema che non riesce a migliorare sé stesso per svolgere quella funzione costituzionalmente prevista. Il Covid lo ha solo fatta esplodere. Il sovraffollamento è problema noto e mai affrontato, perché risolverlo non è una priorità della politica, non porta voti, anzi forse alla maggioranza della popolazione, e quindi degli elettori, darebbe sicuramente fastidio. Le colpe sono tante e di tanti, la volontà politica è di nascondere sotto il tappeto la polvere della grana carceraria e nemmeno la situazione pandemica ha portato a voler analizzare con fermezza la possibile soluzione o mitigazione del problema. Piuttosto, ha fatto sì che la situazione diventasse ancor più esacerbata del solito, con una dichiarazione di guerra tra poveri, tra guardie e ladri, con i ladri che diventano capro espiatorio e le guardie carnefici, volenti o nolenti.

 

Queste righe non vogliono fare di tutt’erba un fascio. Così come si vuole strappare le etichette dalle persone recluse, non si vuole di certo attaccarne agli agenti carcerari, che lamentano una situazione lavorativa di estrema difficoltà e il cui nervosismo può essere se non compreso almeno oggetto di attenzione, ma una riflessione va posta, nei termini di quanto le spedizioni punitive, l’inflizione di umiliazioni, la riduzione dell’essere umano a un animale in gabbia possano giovare alla tenuta del sistema carcerario o riescano nell’intento di “rieducare” il recluso o permettano di conviverci all’uomo che, finito il turno, toglie la divisa intrisa di sangue di altri esseri umani manganellati e torna a vestire i panni di marito, padre, figlio. “Eseguivo solo ordini” è una giustificazione vecchia di settant’anni, che non vorremmo sentire mai più.

 

Pubblicato su "Voci di Dentro - Numero 35 - Febbraio 2021"

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