Infodemia, la variante che attacca media e social

Insieme al Coronavirus in questo “indimenticabile” 2020 appena trascorso si è diffuso un altro virus, che seppur non direttamente letale, ha rappresentato e rappresenta un pericoloso elemento aggravante della sicurezza dei cittadini: l’infodemia.

Infodemia è un neologismo che l’Enciclopedia Treccani ha inserito nel 2020 definendola “circolazione di una quantità eccessiva di informazioni, talvolta non vagliate con accuratezza, che rendono difficile orientarsi su un determinato argomento per la difficoltà di individuare fonti affidabili”. Una information overload, come descritta da Ruggiero, Laurano e Brancato sul volume “La società catastrofica” edito da Franco Angeli. Un sovraccarico di informazioni, legate allo sviluppo della rete, che permette a chiunque di creare e diffondere notizie.

Anche l’Organizzazione Mondiale della Sanità è stata costretta a riconoscere questo problema e a diramare l’allarme, perché la diffusione incontrollata di fake news, soprattutto sui social media, rende ancor più difficile raggiungere i cittadini per portarli a comportamenti corretti. Per l’OMS, come riportato sul sito ufficiale, c’è un’infodemia quando ci sono “troppe informazioni, comprese quelle false o fuorvianti, in ambienti digitali e fisici durante un’epidemia”. Il fenomeno, però, non è di recente scoperta. Già nel 2006 uno studio del World Economic Forum fornì la definizione di infodemia come “la rapida diffusione di informazioni non accurate o incomplete o false, in grado di amplificare gli effetti di un problema” (Manfredi, 2015).

Tra cure alternative con aglio, oli essenziali o gargarismi di candeggina, scoperte di farmaci miracolosi, inserimento di nanochip 5G nei vaccini, necessità di lavare, capelli, indumenti e scarpe al rientro a casa, cure preventive a base di antibiotici o antinfiammatori, la rete è stata invasa. Un allarme giustificato, perché la bagarre informativa provoca confusione e quando le persone non sono sicure sono portate a sottovalutare, a negare o a commettere errori comportamentali che possono intensificare situazioni di pericolo. Ad avvalorare la tesi c’è uno studio pubblicato sulla rivista Applied Network Science, che ha dimostrato che l’effetto della disinformazione provoca l’aumento del numero di contagi. Secondo l’analisi portata avanti dagli studiosi, in una situazione di lockdown totale, dove i contagi registrano una percentuale del 76%, la cattiva informazione fa innalzare tale percentuale di contagiosità al 95%. Dati rilevanti che mettono in luce quanto sia potente l’influenza dell’informazione sul comportamento umano e sulle conseguenze derivanti.

Confusione e comportamenti a rischio complicano la gestione dell’emergenza, in una già complessa situazione emergenziale mondiale, e minano la fiducia nelle istituzioni in una sorta di circolo vizioso. La fiducia nelle istituzioni è, difatti, un requisito fondamentale affinché la comunicazione in emergenza sia efficace nel suo proposito principale che è quello di dare le giuste informazioni e indirizzare la popolazione. La pandemia ha, in realtà, prodotto un effetto a due direzioni: da un lato ha permesso un leggero rinvigorimento della credibilità delle istituzioni mediche e scientifiche, dall’altro ha aumentato la distanza tra cittadini e media tradizionali. Distanza che ha contribuito a far spostare l’attenzione verso fonti alternative.

L’allontanamento dai media tradizionali può essere anche figlio dei tempi, ma da più parti si levano critiche nei confronti dell’attuale sistema mediale italiano. La stampa italiana da troppo tempo si è adagiata sull’omologazione di temi, sulla routine produttiva e l’effetto fotocopia è chiaro agli occhi degli utenti, tanto che persino il Santo Padre Francesco, nel messaggio “Vieni e vedi. Comunicare incontrando le persone dove e come sono” rilasciato in occasione della Giornata mondiale delle Comunicazioni Sociali, ha denunciato l’appiattimento della produzione giornalistica e la perdita di spazio e di qualità del giornalismo di inchiesta e di reportage, invitando i giornalisti a uscire dalle redazioni e a tornare per strada, a “consumare le suole delle scarpe”. Inoltre, alcuni studiosi (Grandi, Piovan) hanno rilevato che le fonti dell’informazione, siano esse le istituzioni o i professionisti della comunicazione, producono documenti a basso indice di leggibilità. Se gli ormai noti DPCM hanno un indice del 35%, anche le principali testate giornalistiche (Repubblica, Corriere, Fatto Quotidiano) non eccellono per fruibilità. Infatti, la leggibilità di questi quotidiani presenta percentuali vicine al 50% negli articoli che trattano i temi del Covid. Anche questo aspetto, in un paese come l’Italia che ha tra i più bassi tassi di laureati d’Europa, può far sì che si attivi una migrazione dei lettori verso forme alternative con la conseguente diffusione dell’infodemia.

Uno sviluppo così imponente dell’informazione selfmade disintermediata e la crescente digitalizzazione, se da un lato ha permesso di colmare dei vuoti del sistema mediale tradizionale, dall’altro ha lasciato campo libero a notizie false e dannose per i cittadini, che senza un filtro professionale diventano un’arma micidiale nelle mani di malintenzionati. Soprattutto i social media rappresentano un mezzo veloce e pervasivo per far proliferare le notizie, ma senza nessun controllo o filtro si rischiano di avere, come rilevato dalla Fondazione Kessler di Torino, quattro milioni di twit curati da esperti e quasi 21 milioni non classificabili o privi di fonte attendibile, veri e propri focolai di infodemia.

Per “curare” l’infodemia l’OMS ha consigliato quattro attività:

·        Ascoltare le preoccupazioni e le domande della comunità;

·        Promuovere la comprensione del rischio e la consulenza di esperti sanitari;

·        Costruire la resilienza alla disinformazione;

·        Coinvolgere e responsabilizzare le comunità affinché intraprendano azioni positive.

 

Senza tornare sulla variegata e contraddittoria comunicazione dell’ultimo anno, oggi le preoccupazioni sul nuovo vigore della pandemia nelle sue varianti sono quanto mai accese e sarebbe necessario trasmettere ai cittadini la sicurezza sui progressi del processo di vaccinazione e dell’importanza dell’adesione. Quante delle misure indicate dall’OMS sono state attuate nel nostro Paese? Quali strumenti sono stati adottati per ascoltare la comunità? Quanto spazio ha dedicato al suo coinvolgimento? La parola ai no vax e ai negazionisti.

 

Pubblicato su "Voci di Dentro - Numero 36 - Marzo 2021"

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