Infodemia, la variante che attacca media e social

Insieme al Coronavirus in questo “indimenticabile” 2020 appena trascorso si è diffuso un altro virus, che seppur non direttamente letale, ha rappresentato e rappresenta un pericoloso elemento aggravante della sicurezza dei cittadini: l’infodemia.

Infodemia è un neologismo che l’Enciclopedia Treccani ha inserito nel 2020 definendola “circolazione di una quantità eccessiva di informazioni, talvolta non vagliate con accuratezza, che rendono difficile orientarsi su un determinato argomento per la difficoltà di individuare fonti affidabili”. Una information overload, come descritta da Ruggiero, Laurano e Brancato sul volume “La società catastrofica” edito da Franco Angeli. Un sovraccarico di informazioni, legate allo sviluppo della rete, che permette a chiunque di creare e diffondere notizie.

Anche l’Organizzazione Mondiale della Sanità è stata costretta a riconoscere questo problema e a diramare l’allarme, perché la diffusione incontrollata di fake news, soprattutto sui social media, rende ancor più difficile raggiungere i cittadini per portarli a comportamenti corretti. Per l’OMS, come riportato sul sito ufficiale, c’è un’infodemia quando ci sono “troppe informazioni, comprese quelle false o fuorvianti, in ambienti digitali e fisici durante un’epidemia”. Il fenomeno, però, non è di recente scoperta. Già nel 2006 uno studio del World Economic Forum fornì la definizione di infodemia come “la rapida diffusione di informazioni non accurate o incomplete o false, in grado di amplificare gli effetti di un problema” (Manfredi, 2015).

Tra cure alternative con aglio, oli essenziali o gargarismi di candeggina, scoperte di farmaci miracolosi, inserimento di nanochip 5G nei vaccini, necessità di lavare, capelli, indumenti e scarpe al rientro a casa, cure preventive a base di antibiotici o antinfiammatori, la rete è stata invasa. Un allarme giustificato, perché la bagarre informativa provoca confusione e quando le persone non sono sicure sono portate a sottovalutare, a negare o a commettere errori comportamentali che possono intensificare situazioni di pericolo. Ad avvalorare la tesi c’è uno studio pubblicato sulla rivista Applied Network Science, che ha dimostrato che l’effetto della disinformazione provoca l’aumento del numero di contagi. Secondo l’analisi portata avanti dagli studiosi, in una situazione di lockdown totale, dove i contagi registrano una percentuale del 76%, la cattiva informazione fa innalzare tale percentuale di contagiosità al 95%. Dati rilevanti che mettono in luce quanto sia potente l’influenza dell’informazione sul comportamento umano e sulle conseguenze derivanti.

Confusione e comportamenti a rischio complicano la gestione dell’emergenza, in una già complessa situazione emergenziale mondiale, e minano la fiducia nelle istituzioni in una sorta di circolo vizioso. La fiducia nelle istituzioni è, difatti, un requisito fondamentale affinché la comunicazione in emergenza sia efficace nel suo proposito principale che è quello di dare le giuste informazioni e indirizzare la popolazione. La pandemia ha, in realtà, prodotto un effetto a due direzioni: da un lato ha permesso un leggero rinvigorimento della credibilità delle istituzioni mediche e scientifiche, dall’altro ha aumentato la distanza tra cittadini e media tradizionali. Distanza che ha contribuito a far spostare l’attenzione verso fonti alternative.

L’allontanamento dai media tradizionali può essere anche figlio dei tempi, ma da più parti si levano critiche nei confronti dell’attuale sistema mediale italiano. La stampa italiana da troppo tempo si è adagiata sull’omologazione di temi, sulla routine produttiva e l’effetto fotocopia è chiaro agli occhi degli utenti, tanto che persino il Santo Padre Francesco, nel messaggio “Vieni e vedi. Comunicare incontrando le persone dove e come sono” rilasciato in occasione della Giornata mondiale delle Comunicazioni Sociali, ha denunciato l’appiattimento della produzione giornalistica e la perdita di spazio e di qualità del giornalismo di inchiesta e di reportage, invitando i giornalisti a uscire dalle redazioni e a tornare per strada, a “consumare le suole delle scarpe”. Inoltre, alcuni studiosi (Grandi, Piovan) hanno rilevato che le fonti dell’informazione, siano esse le istituzioni o i professionisti della comunicazione, producono documenti a basso indice di leggibilità. Se gli ormai noti DPCM hanno un indice del 35%, anche le principali testate giornalistiche (Repubblica, Corriere, Fatto Quotidiano) non eccellono per fruibilità. Infatti, la leggibilità di questi quotidiani presenta percentuali vicine al 50% negli articoli che trattano i temi del Covid. Anche questo aspetto, in un paese come l’Italia che ha tra i più bassi tassi di laureati d’Europa, può far sì che si attivi una migrazione dei lettori verso forme alternative con la conseguente diffusione dell’infodemia.

Uno sviluppo così imponente dell’informazione selfmade disintermediata e la crescente digitalizzazione, se da un lato ha permesso di colmare dei vuoti del sistema mediale tradizionale, dall’altro ha lasciato campo libero a notizie false e dannose per i cittadini, che senza un filtro professionale diventano un’arma micidiale nelle mani di malintenzionati. Soprattutto i social media rappresentano un mezzo veloce e pervasivo per far proliferare le notizie, ma senza nessun controllo o filtro si rischiano di avere, come rilevato dalla Fondazione Kessler di Torino, quattro milioni di twit curati da esperti e quasi 21 milioni non classificabili o privi di fonte attendibile, veri e propri focolai di infodemia.

Per “curare” l’infodemia l’OMS ha consigliato quattro attività:

·        Ascoltare le preoccupazioni e le domande della comunità;

·        Promuovere la comprensione del rischio e la consulenza di esperti sanitari;

·        Costruire la resilienza alla disinformazione;

·        Coinvolgere e responsabilizzare le comunità affinché intraprendano azioni positive.

 

Senza tornare sulla variegata e contraddittoria comunicazione dell’ultimo anno, oggi le preoccupazioni sul nuovo vigore della pandemia nelle sue varianti sono quanto mai accese e sarebbe necessario trasmettere ai cittadini la sicurezza sui progressi del processo di vaccinazione e dell’importanza dell’adesione. Quante delle misure indicate dall’OMS sono state attuate nel nostro Paese? Quali strumenti sono stati adottati per ascoltare la comunità? Quanto spazio ha dedicato al suo coinvolgimento? La parola ai no vax e ai negazionisti.

 

Pubblicato su "Voci di Dentro - Numero 36 - Marzo 2021"

Link https://ita.calameo.com/read/00034215466c0c0a59844 

La puntata di Report sulle violenze nelle carceri

«Ci hanno spogliato, sì, spogliato a nudo, così come animali in una stanza. E pum, coi manganelli sulle cosce, sui reni. Trattato che neanche un cane così». Questa, come tante altre di reclusi e di familiari, è una testimonianza di un detenuto di Santa Maria Capua Venere trasmessa dalla trasmissione Report del 18 gennaio. Si fa riferimento alla cosiddetta perquisizione effettuata dagli agenti della Polizia Penitenziaria dell’Istituto di pena campano il 6 aprile 2020, il giorno dopo le proteste esplose nel carcere per la mancata attivazione di qualsivoglia precauzione anti Covid, se non l’annullamento dei colloqui. “Cosiddetta perquisizione”, perché l’attività dei 300 agenti in tenuta antisommossa è, giustamente, oggetto di indagine da parte della locale Procura che ha iscritto sul registro degli indagati 44 agenti della polizia penitenziaria, che avrebbero effettuato una vera e propria spedizione punitiva ai danni dei rivoltosi e non solo. Vittime della punizione sono stati anche quei detenuti che alla rivolta non avevano partecipato, ma che erano rimasti nelle sezioni ed erano usciti nel campetto solo seguendo le indicazioni degli agenti per non morire asfissiati dal fumo degli incendi appiccati. Un intervento a freddo, considerato che la rivolta era stata sedata. Un’operazione organizzata, non frutto di reazione per il ripristino dell’ordine, ma agenti incappucciati, con caschi e manganelli, disposta «sicuramente dall’autorità penitenziaria, dal Provveditore o dal Direttore» spiega il sindacalista della Polizia Penitenziaria che aggiunge «noi non stiamo li a fare i cappellani, non porgiamo l’altra guancia se colpiti».

Certo, signor sindacalista, ci sta, ma la rivolta era già finita, come giustamente sottolinea il giornalista di Rai Tre, anche al Provveditore DAP campano. Così come non c’erano situazioni di sommossa, quando i detenuti, trasferiti in altre carceri, sono stati picchiati nell’Istituto di partenza, durante il trasferimento e all’arrivo nella destinazione, lasciati scalzi e senza possibilità di lavarsi e di cambiarsi di abito per venti giorni.

Non nego che mi ha coinvolto emotivamente la commozione della mamma di un detenuto di Poggioreale quando al videogiornalista di Report confessa: «non hanno acqua calda. Veramente che hanno sbagliato i ragazzi, però essere trattati proprio da animali, no. Mio figlio è risultato positivo al Covid ed è un mese che non lo vedo. Almeno fateceli portare a casa in questo periodo che è così pericoloso e delicato. È un ragazzo di 22 anni.» A nulla sono serviti gli appelli dei familiari, le denunce, le richieste del Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma, lo sciopero della fame di Rita Bernardini, le disposizioni normative. Le misure alternative previste nei decreti Covid per alleggerire il carico carcerario, anche in previsione della necessità di avere spazi dedicati all’isolamento dei positivi, sono state applicate in percentuale minima per i paletti imposti, ma anche per la cronica difficoltà del sistema giudiziario di assolvere all’alto numero di richieste. Anche la possibilità dei domiciliari con l’uso dei braccialetti elettronici ha trovato scarsa applicazione, questa volta per la mancanza dei dispositivi, che non sono arrivati in numero sufficiente per disporne l’uso per tutti gli aventi i requisiti.

Il conduttore, Sigfrido Ranucci, ritorna sulla sentenza della CEDU e su altre condanne e indagini della giustizia italiana per violenze e torture perpetrate in diverse carceri, sottolineando che i segnali ci sono già da cinque anni e che non si è stati capaci di coglierli. Non sono solo cinque anni, ma decenni che esiste una situazione di criticità di un sistema che non riesce a migliorare sé stesso per svolgere quella funzione costituzionalmente prevista. Il Covid lo ha solo fatta esplodere. Il sovraffollamento è problema noto e mai affrontato, perché risolverlo non è una priorità della politica, non porta voti, anzi forse alla maggioranza della popolazione, e quindi degli elettori, darebbe sicuramente fastidio. Le colpe sono tante e di tanti, la volontà politica è di nascondere sotto il tappeto la polvere della grana carceraria e nemmeno la situazione pandemica ha portato a voler analizzare con fermezza la possibile soluzione o mitigazione del problema. Piuttosto, ha fatto sì che la situazione diventasse ancor più esacerbata del solito, con una dichiarazione di guerra tra poveri, tra guardie e ladri, con i ladri che diventano capro espiatorio e le guardie carnefici, volenti o nolenti.

 

Queste righe non vogliono fare di tutt’erba un fascio. Così come si vuole strappare le etichette dalle persone recluse, non si vuole di certo attaccarne agli agenti carcerari, che lamentano una situazione lavorativa di estrema difficoltà e il cui nervosismo può essere se non compreso almeno oggetto di attenzione, ma una riflessione va posta, nei termini di quanto le spedizioni punitive, l’inflizione di umiliazioni, la riduzione dell’essere umano a un animale in gabbia possano giovare alla tenuta del sistema carcerario o riescano nell’intento di “rieducare” il recluso o permettano di conviverci all’uomo che, finito il turno, toglie la divisa intrisa di sangue di altri esseri umani manganellati e torna a vestire i panni di marito, padre, figlio. “Eseguivo solo ordini” è una giustificazione vecchia di settant’anni, che non vorremmo sentire mai più.

 

Pubblicato su "Voci di Dentro - Numero 35 - Febbraio 2021"

Link https://ita.calameo.com/read/0003421549b30ec5443f5

Il Covid non è democratico

La Sars-Cov-2 è tornata! La prevista seconda ondata è arrivata come uno tsunami a colpire l’Europa, gli Usa e tutti gli stati occidentali. Specifico gli stati occidentali, perché l’Oriente sembra non aver subito il colpo del ritorno del virus: la Cina dichiara numeri contenuti nella decina di unità di contagi giornalieri e il resto dei paesi orientali, seppur continuando a combattere il virus, rimangono in una situazione di controllo.

In questo contesto il regime dittatoriale cinese di Xi Jinping gongola per il risultato ottenuto nel contenimento del virus generatosi proprio nel “Regno di mezzo” che si pone così agli occhi del mondo come modello di efficienza. Da questa esperienza la Cina ne uscirà vincente rispetto ai paesi liberalisti che stanno subendo fortemente il rialzo numerico dei contagiati.

Le motivazioni possono risiedere nel controllo oltremodo invasivo della polizia cinese, ma non nascondiamoci dietro questo, in quanto anche nel Belpaese le limitazioni personali e le invasioni ai limiti della Costituzione delle nostre forze dell’ordine non sono state proprio una dimostrazione di stato liberale. Per il filosofo sudcoreano Byung-Chul Han sono da individuare piuttosto in un atteggiamento culturale di collettivismo rispetto all’individualismo dei paesi occidentali, come spiega dalle pagine de “La Repubblica”, in tempi di crisi una società deve sopravvivere come collettivo, rinunciando alle libertà individuali. Più lo stato è liberale più sarà necessaria coesione di popolo. In paesi come la Nuova Zelanda, la leader ha fatto appello alla “squadra dei cinque milioni” di cittadini e il buon senso ha prevalso.

Le parole condivisibili del filosofo non riesco a farle collimare, però, con il contesto italiano. Abbiamo subito, come detto, limitazioni quasi cinesi e nel complesso il paese ha risposto in maniera obiettivamente corretta, rispettando le indicazioni fornite dal Governo. Credo anche che la comunità italiana sia stata anche ben coesa nel combattere insieme questo virus, che portava via ogni giorno centinaia di nostri connazionali. Allora cosa è successo da giugno ad oggi? La riapertura e il ritorno alla vita normale, se così si può definire vivere senza espressioni sul viso, senza una stretta di mano cordiale e in assenza di contatto umano, ha fatto, se vogliamo, sbracare un po’ l’attenzione sul problema, forse soprattutto da parte delle generazioni più giovani, meno curanti delle misure di distanziamento. Una responsabilità concorrente, però, la trovo nello scontro politico che si è avuto in questo periodo di calma apparente, basato più su annunci fatti per ricercare il consenso degli scontenti che sulla necessità di fornire informazioni certe o di trovare una strategia comune per il bene del paese finalizzata all’attivazione delle misure per evitare un nuovo lockdown. Ancor di più una correità la ravviso da parte degli “esperti” che hanno battuto a tappeto televisioni, radio, giornali, talk show e altro forse solo per raggiungere elevati livelli di visibilità. Così se la prima fase epidemiologica è stata caratterizzata da confusione comunicativa, la fase estiva e attuale è diventata caos allo stato puro. Un giorno il virus è morto, il giorno dopo è mutato ed è più pericoloso. Un giorno le mascherine fanno male, il giorno dopo sono fondamentali. Un giorno c’è emergenza sanitaria, il giorno dopo abbiamo gli stessi morti per influenza che si verificano tutti gli anni. Questo crea una mancanza di credibilità nelle istituzioni che facilita i comportamenti sbagliati.

Ora siamo di nuovo nella condizione di un imminente lockdown economico e sociale, che forse per farci sopravvivere al virus, provocherà la morte definitiva della comunità. La paura di morire, la tanatofobia, che ci attanaglia in questo periodo, paradossalmente ci fa morire lentamente attraverso l’allontanamento dagli affetti, dalla socialità, dal lavoro, dall’attività economica di sostentamento.  “La morte non è democratica” dice ancora Byung-Chul Han, “in questa società della sopravvivenza chi non può permettersi di isolarsi corre maggiori rischi di contagio”, mi chiedo però se la paura di morire non stia diventando paura di vivere e, seppur convinto della necessità di adottare misure per la prevenzione del contagio, mi domando che vita stiamo ormai vivendo e per quanto tempo possiamo ancora viverla così. Le manifestazioni e le proteste che si stanno verificando in tutte le piazze italiane sono la dimostrazione di un’intolleranza oramai non più latente, per la mancanza di certezze su cosa sta succedendo, ma anche perché si sperava che le misure adottate in attesa della seconda ondata fossero sufficienti ad evitare ulteriori riduzioni dello spazio vitale e che il sistema si fosse adattato alla nuova condizione per uscire dall’emergenza e permetterci di tornare a vivere.

Così non è stato e ci troviamo ad affrontare la seconda ondata nella speranza che ulteriori restrizioni (in zona gialla, rossa o arancione che sia) portino alla deflessione della curva dei contagi. Quando i numeri torneranno gestibili, potremo dire di aver imparato dai nostri errori e prepararci ad affrontare la terza ondata in maniera meno approssimativa? Vista l’esperienza nella gestione delle catastrofi in Italia credo di no. Ci adopereremo solo per mettere una pezza alla mancata prevenzione, magari colpevolizzando questa o quell’altra categoria e sperando di superare ancora una volta l’emergenza. Io speriamo che me la cavo, titolava un libro di Marcello D’Orta citando una frase di un bimbo napoletano scritta su di un tema proprio sulla fine del mondo quanto mai centrato in questo momento storico. E allora speriamo di cavarcela, perché se qualcosa nella mentalità politica di questo paese può cambiare forse non avremo il tempo di vederlo.

 

Pubblicato su "Voci di Dentro - Numero 34 - Dicembre 2020"

 

Link https://ita.calameo.com/read/0003421543900449a2e80 

 

Vaccinazione: obbligo o no?

Il piano vaccinale italiano contro il Covid-19 ha fatto i suoi primi timidi passi verso l’obiettivo dell’immunità di gregge che porterebbe finalmente a vedere la luce fuori dal tunnel. Il 27 dicembre 2020 sarà ricordato come il giorno del vaccination day europeo con i primi volontari, medici e infermieri, sottoposti al vaccino alla luce dei riflettori mediatici.

Sembrerebbe l’inizio della fine e sondaggi alla mano la via presa dal Governo – almeno per il momento – di non obbligare nessuno a vaccinarsi sembra che possa far ottenere i risultati sperati. Infatti, 8 italiani su 10 si dicono favorevoli a sottoporsi alla iniezione del secolo, anche se la maggioranza di loro preferirebbe aspettare qualche mese (fonte Emg-Different/Adnkronos). La copertura del 70-80 % della popolazione vaccinata da raggiungere sarebbe così garantita e non sarebbe necessaria nessuna imposizione, ma qualora ciò non si realizzi l’Esecutivo si troverà di fronte la scelta di dover imporre ai cittadini l’obbligatorietà della prevenzione.

Nella dialettica politica ci sono già profonde spaccature sul tema, tra chi, Conte in primis, preferirebbe appellarsi al senso di responsabilità degli italiani e chi propone di obbligare almeno quelle fasce di popolazione che possono maggiormente entrare in contatto con il virus, quali sanitari e più in generale i dipendenti del pubblico impiego. Attualmente la discussione non si pone nemmeno come prioritaria nell’agenda di Governo, considerato il basso numero di dosi disponibili in Italia e l’alto impatto che potrebbe avere tale decisione anche nell’alimentare le istanze dei no vax, ma la primavera rappresenterà il momento di svolta della battaglia contro il Coronavirus che il nostro Paese, come il mondo intero, sta combattendo a suon di restrizioni, di sacrifici, di morti e, in previsione, anche di forte crisi economico-sociale.

Molte voci, tra cui quella del Primo Ministro, ricordano che l’art. 32 della Costituzione recita che «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può esser obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizioni di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». I costituzionalisti Giovanni Maria Flick dalle pagine di Open e Michele Ainis dall’Huffington Post hanno ricordato che l’obbligo della vaccinazione non è un tema sconosciuto al nostro paese, che fino al 1999 l’Italia aveva quattro vaccini obbligatori, ma dal 2017 il decreto Gentiloni le ha portate a dieci. Un aumento dovuto alla rilevazione di troppi casi di malattie legate alla mancata profilassi fomentata anche da comportamenti dei cittadini votati al disinteresse, all’ignoranza e al prolificare di fake news sulle conseguenze della terapia vaccinale. Anche due sentenze della Corte Costituzionale hanno confermato la possibilità per lo Stato di avocare a sé la possibilità di disporre misure normative cogenti in situazioni di tutela della salute pubblica, assumendosi la responsabilità e l’onere di eventuali risarcimenti per danni conseguenti alle imposizioni di legge. La scelta diventa, pertanto, puramente politica seppur la disposizione, proprio per la delicatezza della materia, deve passare attraverso l’iter parlamentare che approvi una legge ad hoc come previsto dalla nostra Costituzione.

Inoltre, sottolinea il giurista Pietro Ichino sul Corriere della Sera, non solo si può, ma in molti casi è anche previsto come obbligatorio dall’art. 2087 del Codice Civile. La disposizione del Codice recita, infatti, che il datore di lavoro è tenuto ad adottare tutte le misure necessarie per garantire l’integrità del lavoratore e l’eventuale rifiuto del dipendente potrebbe configurare la rescissione del rapporto di lavoro, ragionevolmente sulla base della situazione epidemica e della disponibilità di vaccini.

Di contro c’è chi postula, come il Professore di Diritto del Lavoro dell’Università di Pisa Mazzotta Oronzo, che seppur esiste la possibilità di obbligare i lavoratori, questa va contestualizzata al tipo di ambiente lavorativo. In ambito ospedaliero, ad esempio, l’eventuale rifiuto da parte di medici e infermieri alla vaccinazione potrebbe creare situazioni di responsabilità risarcitoria nei confronti di quei pazienti contagiati a causa dell’inadempienza del lavoratore. Mazzotta ritiene che anche l’ipotesi di licenziare il lavoratore in caso di rifiuto non sia così evidente e nemmeno la più corretta reazione da parte del datore di lavoro, in quanto molti vincoli contrattuali, quali la “giusta causa” o il “giustificato motivo soggettivo”, nonché la possibilità di adibire il lavoratore ad altra mansione, ne impedirebbero la sua applicazione.

Oltre all’imposizione normativa, è allo studio in tutti i paesi europei anche un sistema di tipo premiale. Una sorta di lasciapassare, una patente del vaccinato che gli consentirebbe di viaggiare sui mezzi, di frequentare luoghi aperti al pubblico, partecipare a eventi, cose che altrimenti sarebbero precluse.

In sintesi, gli strumenti normativi, esistenti o in fase di studio, sono applicabili soprattutto in questo momento così drammatico per la popolazione mondiale e il richiamo alla necessità di salute pubblica è quanto mai attuale.

 

Appare, però, condivisibile la linea adottata dal Governo di non voler rendere obbligatoria la terapia, augurandosi che questo non vada a scontrarsi con una realtà in cui i timori per il virus siano superati da quelli verso il vaccino. La paura che negli ultimi decenni si è diffusa tra la popolazione, negazionisti e non, è proprio quella dei danni collaterali che possono provocare i vaccini, in maniera particolare per un vaccino nato a distanza di un anno dalla scoperta del virus che si prefigge di annientare. Controindicazioni, reazioni allergiche, intolleranze effettivamente possono esserci, ma alla stregua di tutti gli altri farmaci in vendita che spesso assumiamo senza troppa cognizione di causa e con estrema naturalezza. Se in tempi normali al minimo cenno di mal di testa, al primo starnuto, al più leggero mal di schiena ingurgitiamo una quantità indefinita di farmaci di cui non abbiamo mai aperto il bugiardino, nella situazione attuale potremmo fare lo sforzo di evitare la sovrastima in negativo di un prodotto farmaceutico che potenzialmente metterà al sicuro noi, le nostre famiglie e la comunità tutta.

Verso il totalitarismo digitale. Ecco la società figlia del virus

Il virus ci ha cambiato? Il Coronavirus segnerà il passaggio a un mondo nuovo, diverso da come era prima? A queste domande prova a dare una risposta Marco Bracconi nel suo pamphlet La mutazione, edito da Bollati Boringhieri in solo formato e-book.  

Una lettera scritta direttamente al virus, per raccontargli il mondo che ha contribuito a creare in questi mesi di lockdown. Si rivolge a questo nemico invisibile e vasto contrapponendolo a un nemico con uguali caratteristiche: Internet. Una pervasione totale da parte della Rete nelle nostre vite e nella gestione di tutte le dinamiche della quotidianità. Una delle paure più grandi degli italiani è stata, al secondo posto dopo il timore di contrarre la malattia, quella di non avere più disponibilità del Web. “Un’umanità fuggitiva in possesso di una sola certezza: in questo frangente estremo potevamo farcela senza Dio, ma senza il Web proprio no, senza la Rete nulla ci sarebbe stato più permesso”. Ogni critica a Internet è stata azzerata dalla visita del virus. 

Sostanzialmente la Rete è diventata, per Bracconi, intoccabile, ha fatto il salto di specie, per rimanere nella terminologia cara al virus, ha permesso a noi di vivere affamando il Coronavirus, ma ha reso ancor più evidente quello che da anni ci sta abituando a fare, cioè a un’atarassia sociale, a un allontanamento dalla dimensione pubblica, dalla partecipazione alla vita sociale intesa come presenza corporale. La Rete è diventata sistema-mondo dove è più importante l’immagine che il corpo, in cui l’infosfera ha perso struttura diventando più info che sfera, dove fake, haters e altro hanno trovato lo spazio per qualsiasi ignobiltà.

Proprio alla simbologia della presenza del “corpo” si rifà Bracconi parlando della passeggiata solitaria del Papa per le vie di Roma, a ricordarci che la nostra identità è anzitutto corporea, non digitale. Quel corpo solo era un corpo al quadrato, una tonnellata di corpi che gridavano di esserci, che rivendicavano che il corpo non è interscambiabile o moltiplicabile come un account. Rappresenta la nostra identità e il nostro vincolo di uguaglianza, come titola l’Osservatore Romano.

Allora non è vero che nulla sarà come prima, ma ci siamo solo lasciati mutare in una palingesi delle relazioni umane, nulla di millenaristico, ma solo un passaggio che era oramai da 10 anni nelle corde della nostra società digitale e digitalizzata.

Condivisibile è anche la visione di Bracconi della fase due, della ripartenza inscatolata in moduli prestabiliti e schedulati, una sorta di feudalesimo in cui il feudo è di quattro metri quadri a persona con istruzioni scaturite de jure e dove l’unica salvezza plausibile sembra quella offerta dal digitale che spinge verso un isolamento garantista. Il futuro che ci attende, allora, fatto di smart working, e-learning, remotizzazione, è quello che ha innescato il virus, portandoci in direzione di un totalitarismo da manuale, verso la perdita del senso stesso della democrazia che sarà sempre meno concreta, quanto meno sarà fondata sulla presenza fisica, sulla partecipazione pubblica. “Abbiamo ceduto spazio pubblico al digitale” colmando il vuoto con fasci di fibre. Il virus, mentre moriva a causa di Internet, toglieva di dosso a quest’ultimo qualsiasi neo o aspetto negativo su cui dibattere, facendolo diventare, piuttosto, il punto di partenza per il futuro.

Nulla sarà come prima, ma forse abbiamo già dimenticato, ci ricorda La mutazione, cosa c’era prima del virus: un mondo già pieno di emergenze ambientali che ogni anno provocano 12 milioni di morti e secondo l’OMS nei prossimi 5 anni saranno 60 milioni. Anzi 59, sottolinea Bracconi, perché nel periodo di chiusura a causa del virus, la natura ha avuto la possibilità di riprendersi il posto che le spetta, anche se il ruolo di primo killer spetta alla Sars-Cov-2, non tanto per “le prodezze” del virus, ma per una decisione tutta umana di “assegnare un diverso grado di nobiltà tra chi muore di smog e chi di polmonite”.

Un’analisi folgorante che mette nel focus una socialità disintermediata quale male che questa società sta affrontando che, però, non è solo figlia del virus, ma di un percorso che stiamo già solcando da anni e che la restrizione della libertà impostaci per ragioni di salute pubblica, ha solo reso più evidente e, ormai, considerata indispensabile a garantirci una vita futura. Una vita che, qualora continuasse ad andare in tale direzione, ci porterebbe verso un totalitarismo digitale, che sminuirebbe la tanto storicamente agognata democrazia, in favore dei magnati del digitale e di una realtà distorta e realizzata dalla Rete. Questo virus ci somiglia un po’ troppo, titolava un mio precedente articolo, e anche Bracconi trova questa similitudine quando spiega al virus “tu, invece, in quel momento avresti fatto bene a tener presente che la signora alla quale stavi perfezionando il brand non era affatto un’amica. Hai promosso la Rete […] e intanto lei, aiutandoci a stare separati l’uno dall’altro, ti ha ridotto alla fame. Alla fine tu sei mezzo morto e i sacerdoti del digitale sono passati all’incasso. Sarai pure un virus, ma per certe cose non ti comporti molto diversamente da noi”. 

 

Pubblicato su "Voci di Dentro - Numero Speciale - Giugno 2020"

 

Link https://ita.calameo.com/read/0003421540ff53a3a05a0

Covid-19, le parole dell’esperto: “La diffusione del virus e la percezione del rischio in Italia…”

“L’Italia è oggi il secondo paese al mondo per numero di contagiati da Co-Vi-D 19. Complessivamente al 29 marzo le persone risultate positive al Coronavirus sono 97.689. Una diffusione estremamente alta, che si spera inizi a rallentare quando oramai sono trascorsi già 20 giorni dal Decreto che ha esteso all'intero territorio nazionale le restrizioni in un primo momento imposte solo ad alcune regioni del nord.

Sono allo studio, ma forse è ancora presto per fare questo tipo di analisi, le motivazioni che hanno portato il nostro paese a un numero di contagi così alto, ma proviamo a ipotizzare che numeri così alti siano dovuti a una mancata percezione iniziale del rischio da parte della popolazione.

La percezione del rischio è il modo in cui le persone, esposte a un pericolo, considerino effettivamente possibile che un determinato pericolo possa colpire loro direttamente. Entrano in gioco fattori quali la volontarietà all'esposizione oppure la familiarità con il pericolo, ma anche, per dirla con Mary Douglas che considera il rischio un artificio della società, l’accettabilità sociale. Importante per correggere la percezione è indirizzarla verso una reale presa di coscienza del pericolo, mediante un’informazione precisa, coerente e credibile rivolta alla cittadinanza, che così potrà decidere di adottare comportamenti corretti.

Di fronte al presentarsi di un rischio assolutamente sconosciuto, nella forma che ha colpito il pianeta intero, di cui non si conoscevano i risvolti reali e la portata effettiva, il nostro paese ha oggi risposto in maniera responsabile rispettando con difficoltà, ma con convinzione, le restrizioni imposte.

Nel primo periodo, però, la comunità scientifica e il mondo dei cosiddetti “esperti” non ha permesso alla popolazione di percepire in maniera corretta l’entità del problema, che di lì a poco sarebbe diventato un cratere di dimensione nazionale. I primi proclami degli scienziati – qualcuno ancora oggi rimane di questa opinione – sono andati nella direzione che questo nuovo virus era poco più che una normale influenza e che ci stavamo preoccupando di qualcosa che non avrebbe avuto nessun effetto sul nostro paese. Cito il dott. Roberto Burioni, medico divulgatore, che disse che il rischio per l’Italia era pari a zero, oppure la virologa Maria Rita Gismondo che paragonava i numeri dei decessi da Coronavirus a quelli della influenza stagionale, o il dott. Matteo Bassetti, infettivologo primario del San Martino di Genova, che parlava di allarmismo ingiustificato. Senza dimenticare alcune irrisolte gestioni comunicative su, ad esempio, l’uso massivo delle mascherine, il discorso dei tamponi non fatti per sintomi minori, ma fatti a personaggi dello sport o della televisione addirittura asintomatici.

Di fianco a questi il nostro Governo, il Ministro della Salute Roberto Speranza e il premier Giuseppe Conte, parlava di servizio sanitario nazionale prontissimo a rispondere alla eventuale emergenza, cosa che poi nei fatti, si è dimostrata una verità non corrispondente alla assoluta realtà e, ancora, le decisioni prese a step da parte dell’Esecutivo, hanno posto molti nelle condizioni di non costruirsi una corretta mappa mentale di comportamenti da contestualizzare allo scenario “virus pandemico e potenzialmente mortale”.

“Ecco, tutti questi segnali distorti, informazioni discordanti e contraddittorie, hanno probabilmente avuto l’effetto di far sottostimare il rischio da parte della popolazione, soprattutto in un paese, il nostro, che non ama decisamente quel conformismo sociale e quel rispetto delle regole come può avvenire in altre nazioni. Sarebbe forse stato meglio, magari, essere un po’ più allarmisti e sovrastimare le possibili conseguenze, ma ancor di più sarebbe stato fondamentale fornire una comunicazione coerente tra tutti gli attori del teatro “scientifico-politico-mediatico”, cosicché i cittadini avrebbero immediatamente assunto comportamenti consoni a combattere la diffusione. Questo all'interno dei confini nazionali, ma anche al di fuori di essi, dove ognuno è andato per la sua strada, sparando le più semplicistiche rassicurazioni per poi doversi arrendere all'evidenza dei fatti e senza neanche pensare di trovare una strategia comune per combattere questo nemico invisibile. Sarebbe stato meglio dare indicazioni precise, perentorie e immediate sull'isolamento sociale, permettendo, con solerti provvedimenti, alla stragrande maggioranza della popolazione di rimanere a casa.Gli italiani avrebbero percepito il rischio, come lo hanno inteso più tardi, mettendo in atto quei comportamenti corretti senza perdere tempo prezioso."

 

Pubblicato su Centralmente - www.centralmente.com.

Link https://centralmente.com/2020/03/30/covid-19-parole-esperto-diffusione-virus-percezione-rischio-italia/

 

 

 

Quando le parole sono pietre

Lo stigma sociale è il fenomeno che attribuisce un’etichetta negativa a un membro o un gruppo con determinate caratteristiche. Fenomeno, questo, ben conosciuto da chi scrive sulle pagine di questa rivista o che partecipa alle attività di Voci di Dentro, ma che mai avrei pensato di vedere associato a un contesto quale quello dell’epidemia da Coronavirus.

Una situazione che vedevo come piena di solidarietà, gesti eroici (ma anche comportamenti dissennati), intensa profusione al sacrificio, ma soprattutto un contesto che legava tutti come non mai in un momento di difficoltà (come sempre sappiamo fare noi italiani).

Non mi aspettavo che esistesse un documento, prodotto da IFRC, Unesco e WHO con raccomandazioni del John Hopkins Center for Communication Research, che indicasse le linee guida per prevenire e affrontare lo stigma sociale, nel campo della salute, nei confronti di persone con specifiche malattie che possono essere discriminate, allontanate, soggette a perdita di status.

Questo è stato previsto con maggiore rilevanza su una malattia, il COVID-19, che presenta tante incognite perché essendo nuova, genera timore dell’ignoto, facendoci scaricare sugli altri queste nostre paure.

Secondo la direttiva questo può contribuire a creare maggiore diffusione del contagio, in quanto il timore di essere stigmatizzato può spingere a nascondere la malattia e a non cercare immediatamente assistenza sanitaria.

I consigli riguardano sia l’uso corretto di linguaggio, sia i comportamenti.

Nel linguaggio bisogna utilizzare il nome scientifico della malattia COVID-19 o Coronavirus, evitando di parlare di “virus asiatico” o “cinese”, così come bisogna parlare di “persone che si presuma abbiano il Covid 19” e “persone che hanno il Covid-19” e non definirle “sospetti” o “casi Covid”. Questo per evitare la disumanizzazione dei malati. L’utilizzo di termini quali “infetti”, “untori”, “che trasmettono il virus” attribuiscono responsabilità e criminalizzano il malato, creando così la riluttanza a sottoporsi a screening, quarantena o cura. Bisogna parlare del COVID-19 in maniera scientifica con raccomandazioni e misure di prevenzione fornite dalle istituzioni preposte, senza usare definizioni quali “peste”, “apocalisse”, ecc.

Un ruolo importante viene attribuito ai Governi, ai media, agli influencers, ma anche agli stessi cittadini e comunità che dovranno adottare comportamenti volti al contrasto dello stigma. Fornire maggiori informazioni sul nuovo coronavirus potrebbe limitare la discriminazione, pertanto, la priorità è quella di raccogliere e diffondere dati accurati usando un linguaggio semplice e non tecnico. Come in ogni efficace comunicazione del rischio, utilizzare la collaborazione di influencers sociali può determinare la modificazione degli atteggiamenti dell’opinione pubblica. Risulta consigliato dare voce a chi dal coronavirus è guarito, per dimostrare che la maggior parte delle persone guarisce da questa malattia, ma anche costruire una campagna “eroe” per onorare chi si prende cura dei malati. Assicurarsi di rappresentare diversi gruppi etnici e proporre iniziative che creino un ambiente positivo e facilitino il senso di empatia e dello “stare uniti”, ma anche proporre un “giornalismo etico”, che non si concentri troppo sulla ricerca del paziente zero, sui comportamenti individuali e sulle responsabilità dei pazienti e che non dia troppa enfasi alla ricerca di un vaccino, che potrebbe dare un senso di mancanza di armi per sconfiggere il nemico aumentando lo stigma.

La direttiva invita ad attivare azioni volte a correggere le fake news, usando messaggi empatici e di comprensione, a promuovere l’importanza della prevenzione, delle azioni salvavita, dello screening precoce, a condividere racconti che umanizzano le esperienze e le difficoltà delle persone colpite.

Di questa direttiva e del rispetto delle indicazioni fornite, mi sento di fare un’analisi per confrontarla con quanto finora lo scenario del Coronavirus in Italia ha mostrato. Ne scaturisce che pochi sono i dettami rispettati dalla stampa, ma anche dagli organi preposti.

Le definizioni di “caso Covid-19” o di “sospetto Covid-19” sono ormai di uso comune sia nella diffusione mediatica che nei bollettini governativi, così come il riferimento geografico dell’origine del virus, anche se è andato man mano sparendo con l’aumento dei contagi in Italia.

Le informazioni fornite sono state alquanto frammentarie e spesso discordanti sia tra i vari esperti di volta in volta ospiti in TV, sia tra i diversi comunicati ufficiali degli enti preposti alla gestione dell’emergenza e all'informazione della popolazione, passando dalle rassicurazioni sul fatto che si trattava solo di un’influenza alla colpevolizzazione del cittadino per comportamenti non consoni al rispetto delle restrizioni. Così pure nella indicazione delle misure di prevenzione, al netto dell’igiene delle mani e del distanziamento sociale, si sono alternati proclami diversi ad esempio sull’uso della fantomatica mascherina o sulle modalità di comportamento da tenere in caso di dubbi sul proprio contagio o ancor peggio sulle attività da potersi fare all’esterno. Probabilmente anche le misure restrittive decise prima a macchia di leopardo e poi a piccole dosi hanno contribuito a non far immediatamente identificare la gravità del problema e percepirne i rischi conseguenti.

Sicuramente tanti influencers hanno partecipato, seppur in piena autonomia, alla veicolazione del messaggio di invito a restare a casa, così pure è stato dato risalto alle voci di persone guarite e all’eroizzazione del personale sanitario, mentre qualche accentuazione dei giornalisti sui temi dei vaccini, delle cure, del paziente zero e sulle responsabilità personali nella diffusione, c’è decisamente stata.

Di fianco a questo c’è tutto il mondo delle fake news costellato da una miriade di notizie veicolate tramite Facebook, Twitter, Whatsapp, ecc che rendono ancor più complessa e metodica la ricezione e la comprensione delle informazioni utili in questa fase.

 

Se il mancato rispetto di alcune delle indicazioni qui analizzate non ha prodotto stigma sociale (tralasciando le discriminazioni nei confronti dei cinesi oramai sopite) sicuramente hanno rallentato l’adozione di comportamenti sani da parte di una popolazione che non eccelle per il conformismo sociale. Verrà il tempo in cui, speriamo presto, si uscirà da questo incubo invisibile per poter analizzare meglio quanto la comunicazione – o errata comunicazione – abbia influito sul diffondersi del contagio. 

 

Pubblicato su "Voci di Dentro - Numero Speciale 2 - Aprile 2020"

Link https://ita.calameo.com/read/0003421547e171e1d12cd